La prima pagina del libro in questione cita “Alice 2009”, scritto in piccolo, in blu, in alto.
La ragazza delle arance, di Jostein Gaarder l’ho letto e riletto più volte, senza un motivo in particolare. Non ricordo la prima volta che l’ho aperto, non ricordo quando l’ho comprato, né perché. Forse l’ho ritrovato sul mio comodino, un giorno, così.
Dal 2009 ad oggi ha trovato sempre nuovi modi di farsi leggere; con la sua dolcissima semplicità, ha seguito con coraggio e lealtà l’andare della mia vita, prendendo significati nuovi di volta in volta.
Sono pagine che esprimono voglia profonda di vita, in ogni sua forma: poetica, artistica, naturalistica, sentimentale; la protagonista è la morte. È una storia di parole paterne, di crescita, di dolore e d’amore. Mi ha insegnato tanto, mi ha fatto tanta compagnia.
Ho delle immagini in mente di me che lo leggo su un treno, seduta tra le pagine morbide, di quell’edizione morbida, di quella storia altrettanto morbida, con lo scorrere di prati e gallerie e alberi fuori dal finestrino. È inevitabilmente legato al mio viaggiare, dentro e fuori, di anno in anno.
È un libro che ho prestato, sottolineato, consigliato, regalato. Ha fatto tanta strada, tra le mani delle persone che ho incontrato e che sono inciampate in me.
Dicono che ogni libro abbia il suo posto, anzi: il suo giusto posto. La mia copia de La ragazza delle arance ha trovato casa nel ragazzo che ho accanto da quasi due anni, a cui l’ho regalata il primo Natale insieme. Sicuramente lo rileggerò, ma ora so che è al sicuro, con lui.
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