Le Poesie di Arthur Rimbaud

 

Se desidero un’acqua d’Europa, è la pozzanghera
nera e gelida in cui, nell’ora del crepuscolo,
un bimbo malinconico abbandona, in ginocchio,
un battello leggero come farfalla a maggio.


Venere Anadiomene

Come da un verde feretro di latta, una testa

Dai bruni capelli esageratamente impomatati

Da una vecchia tinozza emerge, lenta e ottusa,

Con qualche deficienza piuttosto malmessa;

 

e il collo grasso e grigio, le scapole larghe

Sporgenti; il dorso corto che rientra ed esce;

e i fianchi tondi che sembrano spiccar il volo;

Il grasso sotto la pelle appare in piatte falde;

La schiena è un po’ rossa; e tutto ha un odore

Stranamente orrendo; si notano soprattutto

Cose singolari da osservare con la lente…

Le reni hanno incise due parole: Clara Venus;

e tutto questo corpo si muove e porge l’ampia groppa

Schifosamente bella per un’ulcera all’ano.


L’eternità

È ritrovata.

Che cosa? L’Eternità.

E il mare andato via

Col sole.

Anima sentinella,

Mormoriamo la confessione

Della notte così nulla

E del giorno di fuoco.

Dagli umani suffragi,

Dai comuni slanci

lì tu ti liberi

E voli a seconda.

Poiché soltanto da voi,

Braci di raso,

Il Dovere si esala

Senza dire: finalmente.

Là nessuna speranza,

Nessun orietur.

Scienza con pazienza,

Il supplizio Ë certo.

È ritrovata.

Che cosa? – l’Eternità

E il mare andato via

Col sole.

 

Maggio 1872.


Ma davvero ho pianto troppo!
Le albe sono strazianti,
ogni luna è atroce e ogni sole amaro:
l’acre amore mi ha gonfiato
di torpori inebrianti.


Sensazione
Nelle sere d’estate andrò per i sentieri,
pizzicato dal grano, pestando i fili d’erba;
ne sentirò, sognante, il fresco sotto i piedi.
E al vento lascerò bagnare la mia testa.

Non dirò più parole, non farò più pensieri:
ma un amore infinito mi salirà nel petto,
e andrò molto lontano, sarò come uno zingaro,
come con una donna per i campi contento.


Vocali
A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu:
vocali,
Dirò un giorno le vostre origini latenti:
A nero busto irsuto delle mosche lucenti
Che ronzano vicino a fetori crudeli,

Golfi bui; E, candori di vapori e di tende,
Lance di ghiacciai, bianchi re, brividi
d’umbelle;
I, sangue e sputi, porpore, riso di labbra
belle
Nella collera o nelle ebbrezze penitenti;

U, fremiti divini di verdi mari, cicli,
Pace di bestie al pascolo, pace di quelle
rughe
Che imprime alchìmia all’ampia fronte dello
studioso;

O, la superna Tromba piena di strani stridi,
Silenzi visitati dagli Angeli e dai Mondi:
- O, l’Omega, violetto raggio di quei Suoi
Occhi!


La Credenza
È un ampio armadio scolpito; l’antica scura
quercia ha preso una buon’aria di vecchia gente;
l’armadio è aperto, e scioglie dentro l’ombratura
come onda di vin vecchio, un profumo attraente.

È un miscuglio di vecchie anticaglie, stipato
di panni odorosi e gialli, di straccetti
di donne e fanciulli, di appassiti merletti,
di scialli di nonna col grifo pitturato;

- Qui trovi ciocche di capelli bianche e bionde,
i ritratti, i medaglioni, la frutta e i fiori
secchi il cui profumo insieme si confonde.

- Ne sai di storie, o mia credenza d’ore morte!
Vorresti dirci i tuoi racconti, e fai rumori
se lente s’aprono le grandi nere porte.


Dal vetro sporco della mia auto
Bambine che si vendono sui marciapiedi.
Bambini con la mano tesa al semaforo.
Cani abbandonati.
Uomini con le tette che si esibiscono sotto i lampioni.
Uomini senza palle che vendono droga all’angolo.
Bambini nei cassonetti e immondizie per la strada.
Scippi, rapine e risse.
Ragazzini che fumano e sputano sui muri.
Vestiti tutti uguali e pensieri tutti uguali.
Ubriaconi alla guida che vanno a tutta birra.
Pensavo che lavando il parabrezza della mia auto
tutto questo sarebbe sparito.


La Maliziosa
Nella sala da pranzo, bruna, profumata
di frutta e di vernice, come chi non pensa
raccolsi un piatto di non so quale portata
belga, e sprofondai nella mia sedia immensa.

Mangiando, udivo il pendolo, – calmo e giulivo.
La cucina s’aprì in mezzo a una sbuffata.
- Entrò la serva, e chissà per quale motivo,
lo scialle sfatto, con malizia pettinata,

ecco il ditino tremante pose e ripose
sulla sua guancia, velluto di pesche-rose
bianche, e con smorfie del suo labbro bambino

per mio agio, i piatti mi riordinò vicino
- poi, – ma certo per prendersi un bacio, – così
mi soffiò: “Ho una freddo alla guancia, senti qui… ”


La mia bohème (Fantasia)

I pugni nelle tasche rotte, me ne andavo
con il mio pastrano diventato ideale;
sotto il cielo andavo, o Musa, a te solidale;
oh! Là, là! Quanti splendidi amori sognavo!

La sola braca aveva un largo buco. – In corsa
sgranavo rime, Puccetto sognante. E l’Orsa
Maggiore era la mia locanda. – Lassù
le stelle in cielo avevano un dolce fru fru;

le ascoltavo, seduto ai lati delle strade,
nelle sere del buon settembre ove rugiade
mi gocciavano in fronte un vino di vigore;

e, rimando in mezzo ai tenebrosi fantastici,
come fossero lire, tiravo gli elastici
delle mie scarpe ferite, un piede sul cuore!

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